Non è SMART working – di Ferdinando De Blasio

Dall’inizio della quarantena si sono moltiplicati i contenuti (post, foto, video, dipinti olio su tela) di persone inneggianti al cosiddetto smart working. Peccato che:

“La metà di voi lo conosce solo a metà e meno della metà di voi gli dedica metà della considerazione che merita”. (Semi-cit. Bilbo Baggins).

E, in definitiva, in Italia abbiamo ancora le idee un po’ confuse di cosa voglia dire davvero smart working. Dopotutto, il nostro è un paese che si entusiasma in fretta davanti alle novità d’oltreoceano e alle “mode” straniere, ma che non è mai veramente disposto a cambiare per adottarle, e preferisce piuttosto adattare le mode a sé.

Per carità – niente di male: basta evitare di prendersi in giro. In un paese dove l’espressione timbrare il cartellino è ancora perfettamente integrata nel linguaggio comune (anche nei suoi usi metaforici), dove per molte realtà aziendali le ore di permanenza in ufficio sono ancora un metro di valutazione della produttività, non c’è da stupirsi che il cambiamento sia stato molto poco smart.

Perché lo smart working non è una tecnica: è uno stato mentale.

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